Un’inchiesta sul colosso del caffé Starbucks ha rivelato una scomoda verità: dipendenti pesantemente sotto pressione e clienti da servire in fretta in nome del profitto.
Seduti col proprio portatile al tavolino di uno degli 28mila caffé Starbucks del mondo, con un bicchiere di Mocaccino davanti e l’aria di chi è indaffarato in questioni importantissime: insomma, l’immagine disegnata dal colosso del caffè è quella di un vincente. Accanto a questo, il contributo nei confronti dell’ambiente, con impatti controllati e un occhio sempre puntato all’inquinamento (è già arrivata la promessa di eliminare le cannucce di plastica entro il 2020). Ad intaccare il bel quadretto, tuttavia, ci ha pensato un’inchiesta portata avanti da Rts, la rete televisiva di servizio pubblico della Svizzera, dal titolo “Starbucks senza filtro, dietro le quinte del caffè”.
Una telecamera nascosta in un locale Starbucks di Parigi ha riportato uno spaccato che nessun cliente si sarebbe mai aspettato di vedere. Secondo quanto mostrato dalle immagini i dipendenti – considerati quasi degli ‘azionisti’ – hanno costantemente il fiato sul collo, con un unico interesse: il profitto. I risultati delle vendite devono essere confrontate ogni giorno con quelle dell’anno precedente e, non serve dirlo, aumentate. “Noi dobbiamo servire il cliente in meno di 3 minuti. Dobbiamo essere un po’ come dei robot”, si sente dire dal direttore parigino ad un neo-assunto.
Il desiderio di guadagnare fa parte del dna di qualsiasi azienda, figurarsi se si tratta di un gigante come Starbucks. Ciò che però lede davvero l’immagine delle caffetterie più famose al mondo, fondate nel 1971 da Howard Schultz e gestite da lui stesso fino a qualche tempo fa, è semmai il modo in cui il cliente sparisce del tutto. La filosofia che regna esula dai concetti di qualità e cortesia per obbedire a ritmi serrati e meri dati numerici. Se a ciò si aggiunge che i dipendenti devono anche occuparsi delle pulizie, togliendo così del tempo preziosi alla vendita vera e propria, il quadro è completo. Ad accreditare l’inchiesta elvetica c’è anche la lettera collettiva scritta dall’ex dipendente Jaime Prater e sottoscritta da oltre 9000 colleghi al solo scopo di denunciare le pressioni subite ogni giorno. È proprio vero: non è tutto oro quello che luccica.
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