La Giornata mondiale della fibromialgia è un’occasione per puntare l’attenzione su una patologia che non sempre viene riconosciuta ma che provoca dolori cronici invalidanti: come riconoscerla ed affrontarla.
La fibromialgia viene considerata una forma di sensibilizzazione del sistema nervoso centrale, quindi conseguente ad un’alterazione dei meccanismi di controllo del dolore, ma di fatto è una sindrome reumatica della quale non si riescono a capire cause e conseguenze. I sintomi sono fortemente invalidanti e comprendono affaticamento e disturbi del sonno, disfunzioni cognitive (come ad esempio il deficit di attenzione, di memoria o di concentrazione), alterazioni dell’umore (quali ansia e depressione) e sintomi neurovegetativi (tra cui emicrania, dolore e crampi addominali).
A far riflettere è anche la lunghezza della diagnosi, complessa e incerta. Per una persona affetta da fibromialgia “trascorrono in media più di 2 anni prima dell’arrivo della diagnosi, dopo essersi sottoposto almeno a 3 differenti visite specialistiche e diversi esami”, ha fatto notare il direttore di Reumatologia della Asl Toscana sud est Ferruccio Rosati. In occasione della Giornata mondiale della fibromialgia esperti e pazienti hanno cercato di puntare l’attenzione si questa condizione che spesso viene accompagnata da dubbi, pregiudizi e trattamenti poco mirati.
Lo specialista di riferimento solitamente è il reumatologo e può avvalersi del supporto del fisiatra, del fisioterapista, dell’algologo, del neurologo, dello psicologo dello psichiatra. I trattamenti hanno lo scopo di ridurre i principali sintomi, ovvero fondamentalmente il dolore cronico diffuso e tutte le sue conseguenze. Non meno importante, si desidera educare il paziente in merito alla malattia e supportarlo sia a livello fisico che psicologico. I principali campanelli d’allarme sono proprio i dolori: questi si manifestano nei muscoli, nei legamenti e nei tendini ma non vengono accompagnati da alcuna evidenza di infiammazione. Il primo ad accorgersi della fibromialgia dovrebbe essere il medico di Medicina generale. La categoria più a rischio è quella delle donne adulte e purtroppo è più frequente di quanto si possa credere visto che rappresenta il 12-20 per cento delle malattie reumatiche.
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